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venerdì, Dicembre 13, 2024
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Péguy contro il “re denaro”

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Quando apparvero, il 16 febbraio del 1913 sul sesto quaderno dei Cahiers de la Quinzaine, le novantasei pagine de L’argent, se si escludono un paio di segnalazioni, furono praticamente ignorate dal grande pubblico. Eppure l’Autore, anche senza essere famoso, non era affatto uno sconosciuto ed aveva già fatto parlare di sé specialmente in occasione della pubblicazione de Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc (1910).

Oggi il saggio di Charles Péguy è inserito, per intero o per estratto, in tutte le antologie scolastiche ed in tutte le storie della letteratura francese. In Italia, invece, tanto per cambiare, ha visto la luce solamente nel 1972 per i tipi della Casa Editrice Utet; solo alcuni brani furono tradotti e pubblicati in Dibattito Politico da Franco Rodano, prima che le non abbastanza conosciute EL (Edizioni Lavoro, via Boncompagni 19, Roma) dessero alle stampe l’opera in questione, preceduta da un’esauriente introduzione di Giaime Rodano e completata da una breve ed essenziale cronologia della vita e delle opere di Péguy.

Da noi, infatti, quando la cultura ufficiale dominante non può arruolare tra le proprie file gli spiriti liberi, pensa bene di ignorarli, decretandone tout court l’ostracismo. È questa, del resto, la sorte che Charles Péguy, già quando era in vita, aveva dovuto subire da parte sia di radicali, socialisti, anarcosindacalisti e progressisti che dominavano gli ambienti universitari del tempo e che non gli perdonavano di averli abbandonati, sia da parte dei leader del tradizionalismo accademico come De Mun, Barrès, Bourget e Léon Daudet.

Contrastato perciò dalle élites giovanili marxiste e non difeso dalle avanguardie cattoliche e nazionaliste, l’Autore, che sarebbe eroicamente caduto al fronte il 5 settembre 1914 presso Villeroy, durante la prima Guerra mondiale, pubblicava quello che dovrà diventare uno dei suoi testi più importanti, pur sapendo che le tesi espresse avrebbero ulteriormente contribuito ad allontanare da lui ogni successo e ad alienargli gli ultimi residui di popolarità. A Destra ed a Sinistra. Solo in seguito, alla sua morte, ci si accorse dello spessore culturale di questo pensatore e molti ambienti avrebbero fatto a gara per contendersene l’appartenenza.

L’argent fu così considerata l’opera fondamentale di questo Autore, anzi il testo attraverso il quale si sarebbe potuto comprendere il suo completo impianto dottrinale e la sua Weltanschauung. Ci si rese subito conto, infatti, che conoscere questa opera significava conoscere tutto Péguy, perché è qui che emergono chiaramente tutte le sue posizioni: sia quelle antiborghesi ed antimoderne che quelle antisocialiste ed antianarchiche. La critica al mondo moderno, alle sue ideologie ed ai suoi valori, trova la sua sistemazione ed il suo compimento proprio ne L’argent. Riecheggiando de Maistre ed i suoi anatemi controrivoluzionari, Péguy considera tutte le rivoluzioni come delle vere e proprie epifanie del male e del peccato, responsabili, quindi, dell’instaurazione di un sistema che mette sull’altare un nuovo idolo, il denaro.

I cosiddetti valori democratici e liberali, tra i quali la stessa libertà, sono per il pensatore cattolico solamente delle condizioni che devono garantire la realizzazione degli autentici valori dell’uomo, non quelli astratti ed assoluti, ma quelli reali e «carnali», che trovano il loro radicamento proprio in quel fatto concreto, in quell’avvenimento cristiano che è l’incarnazione di Dio che si è fatto uomo. In questa visione del mondo e della storia la borghesia con la sua rivoluzione viene considerata la prima responsabile della corruzione della società con il denaro: da quando il capitalismo ha mortificato «il valore d’uso» del lavoro, per esaltarne quello «di scambio», il lavoro umano è stato considerato e valutato come qualsiasi altra merce, anche la più vile.

Come aveva lamentato lo stesso papa Leone XIII nella sua enciclica Rerum novarum del 1891. «Tutto il male è venuto dalla borghesia. Tutte le aberrazioni, tutti i delitti. È la borghesia capitalista che ha infettato il popolo. E lo ha infettato precisamente di spirito borghese e capitalistico. Per precisione, sto parlando della borghesia capitalistica e della grande borghesia. La borghesia laboriosa, la piccola borghesia è divenuta, invece, la più sfortunata di tutte le classi sociali, la sola che oggi lavori davvero: la sola, dunque, che abbia conservato intatte le virtù operaie e per contraccambio la sola che vive realmente nella miseria».

Gli operai, invece, sono stati infettati dalla borghesia capitalistica. «Proprio loro che un tempo ignoravano persino il significato della raccomandazione, che non erano servi di nessuno e che lavoravano e coltivavano il proprio lavoro come un onore, si sono messi a trattare il lavoro come un valore di Borsa. Proprio loro che un tempo ritenevano che il proprio lavoro dovesse esser fatto bene non per il padrone, né per i clienti, ma per loro stessi e per l’opera in sé, si avvalgono ora dell’ammirevole meccanismo dello sciopero moderno a getto continuo, che fa sempre crescere i salari di un terzo, il costo della vita di una buona metà e la miseria per la differenza».

Prima il capitalismo e poi lo stesso socialismo, quello riformista ed opportunista e quello anarchico e radicale, hanno trascinato i lavoratori sul terreno scivoloso che il mondo moderno ha preparato per loro: quello del denaro. In questo modo la classe operaia, rimanendo in rapporto solo con la borghesia, ha perso ogni contatto con il resto del popolo e con la nazione ed è rimasta indifesa e preda del sistema e del potere del denaro. Quello stesso potere – come rileverà quasi un ventennio dopo Pio XI nella sua enciclica sociale Quadragesimo anno«che diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni, onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare».

È necessario, perciò, che gli operai sappiano imboccare la strada del «recupero» di quelle formazioni storiche e sociali, nell’ambito delle quali si erano realizzati tutti quei valori che il mondo moderno aveva distrutto. Se essi vorranno sottrarsi alla corruzione del capitale ed evitare la contaminazione del «danaro» dovranno, perciò, riscoprire l’orgoglio di essere popolo e far rinascere nel proprio cuore il sentimento di appartenenza ad una nazione. E questo non era impossibile perché fin dall’inizio del secolo anche Péguy vedeva all’orizzonte un’alba nuova. «Io non dico: non vedremo mai più un popolo. Io non dico: la razza è perduta. Io non dico: il popolo è perduto. Io dico: abbiamo conosciuto un popolo che non vedremo mai più. Ne vedremo altri… Bisogna dire: questa razza ne ha viste di parecchie. Essa non ha mai visto niente d’uguale. Essa non ha mai visto nulla di simile. Essa la spunterà ugualmente. Nonostante tutto. Andando oltre. Scorre nelle sue vene il più bel sangue carnale. Ed essa ha dei patroni senza pari al mondo».

di Riccardo Pedrizzi da Il Settimanale di Padre Pio

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